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Concerto all'angolo: Luigi Mariano all'Arciliuto

Nov 24

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso, canto XXXIII, vv. 142-145)

Un concerto sul velluto. Anzi, nel velluto. Quello caldo e accogliente dell’Arciliuto che si riempie di appassionati e amici per applaudire e abbracciare Luigi Mariano a distanza di sei mesi dall’ultima apparizione romana. 
Il cantautore salentino ri-propone l’ultimo disco “Canzoni all’angolo” in un teatro che, a tutti gli effetti, su un angolo si regge. Angolo come spazio geometrico, angolo come luogo figurativo, riposto, recondito, come “canto” da cui si suona meglio. L’Arciliuto è un luogo che premia l’umiltà dell’autore, in piedi accanto al piano mentre suona la chitarra e racconta le sue storie, che con un immaginario filo rosso tenuto per mano da ognuno degli astanti si trasformano nelle storie di tutti. La scaletta di Mariano viene abbracciata, sia fisicamente che empaticamente, dal pubblico, ma soprattutto compresa, accolta, come vuole un’etimologia nemmeno così secondaria del verbo.
È una questione di prospettiva, quella che permette al protagonista di scorgere mondi diversi – e forse migliori – rispetto al presente, al passato, al futuro e ai rapporti tra questi tre tempi verbali e umani. È un concerto dal netto spessore spazio-temporale. Indebolito neanche tanto da una condizione fisica non ottimale, Mariano comincia dal prima e finisce nel poi. La serata viene inaugurata da “Mille bombe atomiche”, che cerca l’errore nel passato per affrontare meglio il viaggio. Dopo il brano che dà il titolo al disco, manifesto della poetica umile dell’artista, si torna al presente, analizzato gaberianamente nelle sue criticità e -a volte futili-problematiche con “Fa bene fa male” (nel disco in duetto con Cristicchi) e “Scambio di persona”. Lo slancio in avanti porta a ragionare su “Quello che non serve più” - dialettica futuro-passato – e a cercare di sorridere anche quando si è tristi (“L’ottimista triste” e il dialogo futuro-presente).
Spazio ampio è dedicato all’amore, che si declina al passato di “Come orbite che cambiano”, sublime resa di una storia d’amore immortale, il cui esempio reale – e finzionale – è quella tra Stephen Hawking e la prima moglie Jane. È la ricerca di un suono universale, di una melodia che unisca le anime dei due innamorati – “corpi in mezzo al niente” e le stelle ormai spente. L’amore non ha futuro, perché se è futuro è già passato, come in “Se ne vanno” – ritorna ancora il tema cosmico – in cui davanti ai contorni sfumati e ai passi andati si rimane inchiodati davanti a uno schermo vuoto.
Ogni autore ha dei modelli a cui si ispira, più o meno direttamente. Mariano li porta tutti sul palco: Dylan, Springsteen – calda e oscura la cover di “Il fantasma di Tom Joad” – Endrigo – omaggiato con “Era d’estate” in una parentesi sull’infanzia, altra declinazione del passato – Gaber – protagonista di “Cosa avrebbe detto Giorgio”, brano del primo disco “Asincrono” – Ciampi – sentita e intesa la cover di “Più di così no” – e De André, ricordato assieme all’ospite Edoardo De Angelis in una lacrimosa versione di “La canzone dell’amore perduto”.

"È l’ora di andar via", appunto, il brano che dà la buonanotte all’Arciliuto e al pubblico di amici, così ancora accaldati dal vino e dalle storie vissute e ricordate. È la chiusa astrale posta a un concerto necessario di un cantautore umile, utile, da abbracciare.

Daniele Sidonio 24/11/2016

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