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A poche settimane dall'inaugurazione a Milano di EXPO 2015, il Museo dell'Ara Pacis di Roma ricostruisce le vicende che hanno segnato la storia della grande esposizione che la Capitale avrebbe dovuto ospitare nel 1942. La mostra, curata da Vittorio Vidotto e aperta fino al 14 giugno 2015, si intitola infatti "Esposizione Universale Roma. Una città nuova dal fascismo agli anni '60".

Fra disegni, fotografie, progetti, sculture, manifesti e filmati d'epoca, nelle sale del museo prende corpo la complessa storia che, nel corso di circa quattro decenni, interessa progettazione, nascita, abbandono e recupero del quartiere EUR, chiamato inizialmente E42. Nato alla periferia sud della città proprio per ospitare la grande esposizione – mai realizzata a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale – il quartiere è in stato di pieno degrado dopo la caduta del fascismo e sarà poi rivitalizzato dai progetti legati alle Olimpiadi del 1960 e i successivi interventi urbanistici, diventando nel corso del decennio un'importante zona residenziale nonché sede di uffici, ministeri e aziende.

La data del 1942 non era casuale: il regime fascista l'aveva fortemente voluta per celebrare il ventennale della Marcia su Roma, dunque l'intero progetto avrebbe dovuto dimostrare, con chiaro intento propagandistico, le conquiste nelle arti, nella tecnica e nell'industria sotto il governo di Mussolini. Come ha scritto infatti Vidotto, "Accanto al Foro Mussolini (oggi Foro Italico) […] la progettazione dell’E42 rappresenta il momento più significativo, per intenzione e per dimensioni, della rappresentazione dei trionfi del regime e della raggiunta affermazione dell’Italia come potenza imperiale". 

Molte le personalità coinvolte nella progettazione già dalla metà degli anni '30 e ben documentate in mostra, dall'architetto Marcello Piacentini - coordinatore degli aspetti architettonici e urbanistici, che annoverano i maggiori architetti italiani del momento, fra cui Libera, Ponti, Moretti, per citarne alcuni - a Cipriano Efisio Oppo, regista invece dei progetti decorativi, fra cui si annoverano i nomi di Severini, Funi, Prampolini, Depero.

Occupato dai tedeschi prima e dagli alleati poi, rifugio per i profughi e gli sfollati della guerra, l'Eur ispira nel 1948 Luigi Squarzina per il dramma "L'esposizione Universale" (un testo inedito che Piero Maccarinelli porterà al Teatro di Roma a giugno prossimo), mentre tornerà a rinascere - come si diceva - solo negli anni '50, sotto la guida di Virgilio Testa, grazie ai progetti architettonici per le Olimpiadi, che ne faranno sede di strutture importanti come il Velodromo (demolito pochi anni fa) o il grande Palazzo dello Sport di Nervi e Piacentini, collocato nel luogo cardine del quartiere, lì dove doveva sorgere l'arco monumentale in alluminio di Adalberto Libera, mai realizzato.

Con gli anni '60 il quartiere diventa inoltre luogo di interesse anche per il cinema - vi abiteranno registi come Pasolini e Sergio Leone, e saranno ambientati numerosi film – e per la fotografia – sono esposte infatti foto fra gli altri di Franco Fontana, Hans-Christian Schink e Andrea Jemolo.

Tutto questo è ricostruito nella mostra dell'Ara Pacis, con un'attenzione ai documenti e alle fonti che rende questa esposizione un'importante tappa per comprendere, attraverso le significative vicende dell'Eur, un pezzo decisivo della storia artistica e culturale del XX secolo in Italia. 

 

(Marco Pacella)


Dopo la chiusura della mostra dedicata al pittore fiammingo Hans Memling, le Scuderie del Quirinale di Roma tornano a focalizzarsi sul '900 nella grande mostra "Matisse. Arabesque".

Curata da Ester Coen, l'esposizione presenta oltre 100 opere del maestro francese Henri Matisse (1869-1954) con un obiettivo specifico: ricostruire il rapporto profondo dell'artista con le culture visive extraeuropee.

Un rapporto, questo, nato nei primi anni del secolo in quel punto nodale della ricerca artistica del momento rappresentato dalla città Parigi. Qui Matisse, a stretto contatto e in continuità con artisti del calibro di Picasso, Braque, Derain e de Vlaminck, inizia a interessarsi innanzitutto alla "scultura negra", uno degli elementi determinanti per l'evoluzione del linguaggio d'avanguardia nel primo decennio del '900.

C'è l'Africa del nord – Algeria, Marocco, mete di importanti viaggi – e quella subsahariana, ma anche l'arte orientale – dalla Russia al Giappone – e quella islamica, osservata con attenzione da Matisse nel 1910 a Monaco di Baviera, in occasione della grande esposizione di arte maomettana. Un bacino assolutamente vario da cui Matisse trae importanti insegnamenti sull'evoluzione del segno grafico e l'utilizzo del colore, innestandoli sulla decisiva lezione appresa da Paul Cézanne, quella ricerca profonda sull'armonia del quadro come parallela e non mera derivazione di quella naturale.

Punto di forza della mostra romana è il tentativo esplicito di rievocare le fonti da cui attinge Matisse in quei decenni, mostrando diverse teche in cui sono esposti manufatti, sculture, ceramiche, stampe, tessuti suddivisi per macroaree di provenienza, oggetti che più che instaurare un rapporto filologico con le singole opere di Matisse, vogliono far luce sulla sua intera produzione attraverso l'evocazione di queste molteplici e disparate esperienze.

"Ridurre gli elementi visivi, giocare con la linea forzando la potenza del colore alla massima saturazione timbrica, esaltare la natura piana della tela e dell'area da dipingere […]", così sintetizza i punti cardine della ricerca di Matisse la curatrice Ester Coen nel testo in catalogo. Da questo punto di vista la selezione di opere in mostra può testimoniare il lungo percorso intrapreso dal pittore, nonostante manchino esempi di un altro linguaggio adoperato da Matisse e altrettanto rivelatore degli indirizzi perseguiti, la scultura.

Pur con questa importante carenza, le opere esposte riescono comunque a sottolineare alcuni punti di svolta in questa lunga ricerca, dal cézanniano "Angolo di tavola (violette)" del 1903 ca. – con cui si apre la mostra – allo straordinario "Ritratto di Yvonne Landsberg" del 1914, un grande olio su tela in cui Matisse mostra di riflettere sia sulle parallele ricerche cubiste che sulle possibilità grafiche del gesto pittorico, testimoniate dall'utilizzo di ampi e calibrati "sgraffi" che incidono le forme facendole emergere dal fondo scuro.

Compenetrazione di figura e sfondo, quasi sottomessi alla più pressante ricerca di un'armonia d'insieme, rappresentano un'altra delle conquiste del linguaggio matissiano. Manca ovviamente un capolavoro come "La stanza rossa" dell'Ermitage, ma questo elemento si può evincere da opere minori ma comunque significative come la tarda "Ramo di Pruno, fondo verde" (1948) o "Il paravento moresco" (1921).

Altro elemento importante presente in mostra sono i costumi e gli studi per le scene del "Chant di Rossignol" del 1920, balletto prodotto dalla celebre compagnia di Balletti russi di Diaghilev sulle musiche di Igor Stravinskij.

Da segnalare infine i diversi incontri in cui, come da tradizione per le mostre alle Scuderie del Quirinale, studiosi e docenti approfondiranno i molti aspetti della lunga e affascinante ricerca di Matisse lungo tutta la durata della mostra.

 

(Marco Pacella)  

Da Janis Joplin a Audrey Hepburn, da Brigitte Bardot a Sophia Loren, sono innumerevoli i personaggi femminili che, a partire dal dopoguerra, si sono ritrovati di fronte alla macchina fotografica di Richard Avedon (1923-2004). I suoi scatti di moda e molti ritratti sono protagonisti della retrospettiva "AVEDON: Beyond Beauty" alla Gagosian Gallery di Roma, fino all'11 aprile 2015.

Fotografie essenziali, dalla ricercata purezza formale, quelle realizzate da Avedon. l personaggi ritratti comunicano una parte di sé e nello stesso tempo gli scatti riescono a porre in primo piano anche l'inconfondibile visione dell'immagine del fotografo newyorkese.

Dallo straordinario "Early Paris Fashion Portfolio" della prima sala si passa allora alla stanza ovale della galleria, in cui sono ospitati i noti ritratti di moda che, grazie alle collaborazioni con riviste come Harper’s Bazaar, Vogue, The New Yorker, hanno reso famoso in tutto il mondo il linguaggio di Avedon.

Celebri fotografie in bianco e nero in cui, su sfondi monocromi assoluti, risaltano i corpi, le pose e gli atteggiamenti fortemente iconici dei soggetti scelti: lo sguardo fiero della scultrice Louise Nevelson (foto del 1975) o quello distratto di Marilyn Monroe (1957); la posa di sfida di Janis Joplin (1969) e quella più familiare, intima, di Evelyn (1969), moglie del fotografo, fino ad arrivare a uno dei suoi lavori più famosi, la grande fotografia di "Dovima con elefanti" (1955), tutta giocata sul calibratissimo corrispondersi del movimento della donna e degli animali alle sue spalle.  

Inaspettatamente a colori sono invece gli scatti della serie che conclude la mostra, "In Memory of the Late Mr. And Mrs. Comfort: A Fable in 24 Episodes", realizzata nel 1995, in cui Avedon mette in scena il rapporto fra purezza e mortalità in un dialogo giocato qui fra il corpo femminile e l'onnipresente scheletro al suo fianco: perfezione e caducità oltre la bellezza, "Beyond Beauty" appunto.  

 

(Marco Pacella)

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