Giuseppe Manfridi è un artista in perfetto equilibrio tra parola e interpretazione, tra scrittura e recitazione, che si destreggia abilmente e con successo come affermato drammaturgo e attore. Franco Cordelli nel ’91, sull’Europeo, lo definì il capofila della nuova drammaturgia italiana. Manfridi è un autore che con i suoi testi ha dato e dà tutt’ora un apporto alla storia del teatro italiano, ma è anche un attore di profondo spessore e classe, come si è potuto notare recentemente in “Americani” di David Mamet, con la regia di Sergio Rubini. Tra un lavoro e l'altro ha deciso di raccontarsi in questa intervista ai lettori di Recensito, svelando i particolari dei suoi progetti attuali e futuri.
È stato interprete fino a qualche giorno fa, al Teatro Eliseo, di “AmericanI”, spettacolo del premio Pulitizer David Mamet sulla crisi dei valori economici e sulla competitività della società americana. Una drammaturgia di botta e risposta, con un personaggio che parla attraverso silenzi e pause. Com’è stato approcciarsi a questo testo? E qual è stato il percorso di caratterizzazione del personaggio?
“Ho amato moltissimo il dovermi creare una vera e propria drammaturgia dei silenzi. Questo soprattutto nella prima scena in cui debbo dar vita a un personaggio che, passando dal rifiuto iniziale nei confronti di un vicino di tavolo, a un pub, intenzionato a irretirlo con proposte di acquisti immobiliari, si fa mano mano convincere, sino a cedergli completamente. E’ stato come vivere un prolungato e vitale piano di ascolto. In seguito, lo stesso personaggio è costretto a deludere quel venditore che lo ha tanto affascinato poiché costretto dalla moglie a rescindere il contratto. In quest’altra scena mi trovo come precipitato in una seduta analitica, e debbo dire che a molto è valsa la grande empatia tra me e Francesco Montanari, attore magnifico, con cui si è stabilita una spontanea facilità di comunicazione scenica. E voglio aggiungere che Sergio Rubini, anche regista dello spettacolo, mi ha messo nelle condizioni ideali per rendere al meglio il tutto tondo del mio personaggio."
Diverso è invece lo spettacolo che è in scena al Teatro Lo Spazio, “Ti amo Maria in jazz”, una sua commedia in cui amore e musica si fondono. La pièce debuttò nel ’90. Come mai questa ripresa? Ci sono state delle modifiche?
"Le modifiche ci sono state, ma non per correggere il testo a distanza di tempo. La commedia rimane quella che scrissi tanti anni fa per Carlo Delle Piane, non saprei cambiare una parola. L’ho piuttosto ridotta per farne una versione jazz. dal momento che il protagonista è un pianista jazz colto in una fase di deriva della sua vita, e che perciò si ripresenta davanti a una donna con cui, dieci anni prima, ha avuto un flirt di qualche mese. Lei se lo ritrova sul pianerottolo di casa, e nell’arco di un’intera estate la donna (che è la Maria del titolo) sarà costretta a subire una vera persecuzione amorosa. Oggi parleremmo di stalking. Nulla dico del finale per preservare la struttura anche un po’ da thriller della vicenda. In questa mia proposta (è la prima volta che dirigo la commedia e che interpreto il ruolo dell’uomo, che si chiama Sandro) è stato prediletto, come dicevo, l’aspetto notturno e jazz, da cui l’utilizzo in scena di un sassofonista che assume la statura di un vero e proprio personaggio. A lavorare con me: Nelly Jensen (Maria), Marcello Micci (il Narratore) e Pierfrancesco Cacace (Sax). Le scene sono di Antonella Rebecchini."
C’è una grande attenzione nei confronti della musica e del jazz, alla descrizione musicale del racconto. Che valore ha per lei la musica e il rapporto tra la musica e il testo?
“In questo caso la musica è quasi un perno narrativo. Tutto il clima è jazz. Ed è anche la dimensione da cui provengono i sogni e i demoni del protagonista, convinto di aver sbagliato strumento. Sandro, infatti, continua a ripetere che avrebbe dovuto suonare il sax e non il piano, perché ogni vero jazzista, dice, suona il sax. E, da questa ragione di trama, ne deriva una naturale proposta musicale di brani in molti casi conosciuti, e in altri, improvvisati, quasi come in una jam session estemporanea tra sassofono e voce”.
Andrà poi in scena, a febbraio, al Teatro di Roma con “L’Indecenza e la forma”. Un omaggio a Pierpaolo Pasolini, n’opera nella quale a parlare saranno il poeta bambino e il poeta adulto, un dramma che attraverso i gironi pasoliniani affronta il presente e il futuro. Sarà quindi uno spettacolo per riflettere sull’attualità più che sulla memoria?
“Il testo ha una struttura poetica dal ritmo densissimo. È un viaggio vorticoso nelle zone più infernali della vita di Pasolini, e senza pudore entra anche nelle carni di quello che è stato il dato centrale della sua biografia: il rapporto con la madre. Nell’insieme è un testo polifonico, a molte voci, ma tutte affidate allo straordinario talento di Francesca Benedetti, per cui è stato a scritto. A dirigerlo sarà Marco Carniti”.
Svolge il duplice ruolo di drammaturgo e di attore: preferisce dar vita ad un personaggio attraverso la parola scritta o recitata?
“Recitare è stato il mio primo sogno, quello da cui son derivati gli altri. Lo faccio con gioia e anche stancandomi poco, ma scrivere è ormai diventata la base della mia vita, e di certo mi è irrinunciabile. Non voglio però limitare queste nuove avventure che mi viene consentito di vivere. Le mie prossime, da attore, saranno con Antonello Avallone, al Teatro Dell’Angelo, per fare ‘Delitto perfetto’, poi, al piccolo Eliseo, con Kaspar Capparoni e con la regia di Chiara Noschese, farò: “Cosmesi dell’assassino”, da un romanzo di Amelie Nothomb”.
Maresa Palmacci 06/11/2016