Ci sono cose che le donne non dicono. Chiari e scuri, luci e ombre, razionalità e passioni a comporre il cosmo femminile. Se ne sentono i segni senza conoscere l’alfabeto preciso, come quel margine che sfugge in ogni opera d’arte ma da cui si origina l’emozione. Un pensiero stupendo di cui è “meglio non dire”.
Nel 1877 esce a puntate su un periodico russo l’incipit di “Anna Karenina” di Lev Tolstoj: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. Da Tolstoj passando per Dostoevskij al norvegese Henrik Ibsen, la famiglia, cardine delle narrazioni del XIX secolo e trionfo della donna come “animale da focolare domestico”, riflette, al pari di ogni altra istituzione, le peculiarità storiche del sistema produttivo, politico e sociale di riferimento. Ibsen scrive e mette in scena “Casa di bambola” due anni dopo, nel 1879. Ne passeranno altri quattro alla morte di Karl Marx, nel 1883, uno dei “maestri del sospetto” della modernità.
Microcosmo sociale, anche la famiglia è vittima dell’inevitabile sgretolamento delle “sovrastrutture” e si rivela nelle sclerosi che le sono proprie. È così che “Casa di bambola”, testo di un teatro di matrice borghese, conserva in sé un’indole rivoluzionaria, a testimoniare il crollo di una delle roccaforti ideologiche – la sacralità della famiglia - su cui si è basata la società occidentale, dalle origini a oggi.
Al Teatro Vascello di Roma, Roberto Valerio, meticoloso regista e, contemporaneamente, protagonista maschile della pièce, sceglie per il suo avvocato Torvald Helmer una recitazione caricaturale, appassionata, così irruente da travolgere e stravolgere il pubblico dentro al flusso di impulsi, desideri e tormenti che tendono le corde di una relazione di coppia, sino all’esaurimento. Nora Helmer, interpretata da Valentina Sperlì, amante, madre e bambina, è l’universo femminile sulla scena: si traduce in uno sguardo prismatico verso le persone e il mondo. È conciliante, naïve, astuta ma anche colpevole, come una delle tante “Eva” della nostra cultura. Ne emerge, per paradosso, la profondità del personaggio, accostato alla tracotanza del marito. Chi è il vero essere superficiale, vittima di sé stesso, tra il maschio e la femmina? Gli stereotipi vacillano e la risposta è quanto mai attuale, in questa contemporaneità che tanto si domanda riguardo posizioni e possibilità delle donne: “non esistono generi ma esseri umani”, è la morale.
Ed è l’umano, ancora una volta, che ci afferra grazie al teatro, alle sue seduzioni e alle sue diavolerie. L’umano come l’abisso, il doppio suggerito dalla scenografia stessa: l’interno razionale di un salotto borghese, sulla sinistra, come una scatola, una di quelle in cui l’artista americano Joseph Cornell inseriva oggetti e volatili di carta. A destra, invece, linee oniriche, un quadro surrealista in cui ritorna alla mente la figura di una gabbia-prigione, deformata dal sogno che s’è fatto incubo. Arriva però il momento in cui il sonno si infrange e gli occhi si aprono, per ricordare a Nora (e a noi) che la libertà, soprattutto nelle relazioni infelici, è ciò che resta quando si decide di perdere tutto.
Ha vinto? Ha perso? Sulla scena, il finale è incerto. Resta chiaro che ogni personaggio, da Torvald, marito arrivista, al minaccioso Krogstad (Michele Nani), al Dottor Rank (Massimo Grigò) fino alla signora Linde (Carlotta Viscovo) lotta egoisticamente per salvare sé stesso - chi la reputazione, chi la salute e chi un sostentamento economico. Sono tutte ombre di una società che va perdendo i suoi contorni umani. Nora è colei che “canta fuori dal coro” e balla la taranta sulla scena. Una metafora del morso della verità per come essa è, talvolta, lucida, brutale, inevitabile.
Agnese Comelli 30/01/2017