VOLTERRA – Diffidate sempre da chi vi dice: “Diffidate dei maestri”. Forse chi ve lo sta dicendo è proprio un maestro. “Ho sempre preferito le persone ai luoghi” può divenire campo di battaglia, terreno comune, sentire allargato, atmosfera impalpabile, pathos rarefatto, motto di un’esistenza. Sembra di sentirle ruvida la barbetta di Massimiliano Civica che fruscia dentro ogni sua parola, la cadenza leggera e flebile, dolce e feroce assieme nella sua ricerca dialettica sui “Concittadini ideali”. Quelli, per dirla alla Salinger, per dirla come l’avrebbe detta il giovane Caulfield, gli autori di quei “libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. Passeggia, rumina sciolto parole come mietitrebbia, cammina, si dondola da un piede all’altro, sposta il peso, sottolinea la potenza delle sillabe, maglia grigia e idee colorate, in questo excursus - lectio magistralis, spremuta di citazionismo e nozionismo mai bidimensionale o puramente superficiale, ma spolverato di quell’effervescenza saggia, spruzzato dell’anidride carbonica di un’ironia che frizza di umanità e occhi veloci che scintillano, atletico salta da un ramo all’altro della conoscenza, spulciando i suoi quaderni rossi dove ha appuntato, vergato, solcato, versato pezzi di storia teatrale, filosofica, religiosa. Il guru è in viaggio, in atto, la beatificazione punge.
E non sono solo frasi quelle appuntate da MC ma virgolettati (veri, presunti, falsi, mistici, traslati, verosimili, tradotti in un telefono senza fili infinito, aggiustati, mai detti; non ha importanza) ma suggelli, marchi, timbri su ceralacca bollente che fermano e immobilizzano il tempo aprendo dimensioni di pensiero sempre verde, spalancano buchi di spazi paralleli dove poter affrontare Robert Mitchum o John Ford e vederseli lì davanti con il volto da Far West del regista romano.
Parole dure, altre lancinanti, anche dolorose, gettate sul piatto come cip di un poker drammatico e leggero, la vita, nella sua voce da uccellino spaurito che fa a pugni con uno sguardo che arriva in profondità, scardina sottopelle. Lancia la frase estrapolata a fare cerchi come il sasso nello stagno, fragore, clamore, rumore, clacson nel silenzio assordante.
Sembra di poter sentire il graffio rauco di Andrea Camilleri, saltando a piedi uniti nell’antica Grecia, baciando la ruvidezza di John Wayne, carezzando Pinter, e rimanendone sempre incollati, appiccicati, densi e maldestri, rovistando nelle pieghe laiche bibliche, sfiorando De Sica, ovviamente senior, colpendoci alle spalle con la dolcezza amara della Duse.
Con quel suo incipit o postprefazione, prima di delineare un nuovo personaggio attraverso le sue parole, “una persona squisita”, fa abbassare le difese e la guardia alla platea ormai merce in balia del regista che giostra come croupier esperto le carte e le fiches sul suo tavolo-puzzle di ammonimenti e indicazioni, consigli e rivendicazioni, esortazioni e veti.
Un regista (Premio Ubu per “Il mercante di Venezia” e “Alcesti”) che si mette dall’altra parte della trincea, nelle vesti dell’attore, ne fa le veci, diviene chansonnier e pusher di parole secolari e millenarie, diventa narratore e affabulatore. I registi ruberanno il mestiere agli attori? “Il poeta migliore è quello che dice le bugie migliori”. L’alloro, in tempi di Olimpiade, è sul capo di Civica.
Tommaso Chimenti