PARMA – Cos'è in definitiva il Paradiso se non un ponte? Un ponte tra il terreno e l'ultraterreno, tra il tangibile e le nuvole, tra la sostanza e l'essenza, tra l'oggi finito e il sempre infinito, tra un lembo di scoglio graffiato e una lingua di campagna vergine. Un ponte è anche un qualcosa di fallico che penetra le zolle di terra dall'altra parte del fiume. Questo il ponte metaforico mentre il ponte reale, concreto in questione è quello parmense che ha sollevato un vespaio di polemiche nella giunta di Forza Italia nell'era pre-Pizzarotti. Un ponte (costato all'epoca una trentina di milioni di euro; per avere un'idea ecco qui il link dell'inchiesta: www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/12/ponte-nord-a-parma-vuoto-e-inutilizzabile-un-guscio-da-25-milioni-di-euro/1117163/) sopra il torrente omonimo della città di Giuseppe Verdi, peraltro quasi sempre in secca (come adesso ad ottobre), avveniristico, fatto di acciaio e travi, bulloni giganti, alto quindici metri e lungo centosessanta ma, di fatto, inagibile. Questo perché, nell'ottica della gestione FI, che lo progettò e lo mise a cantiere, questo “tunnel” di vetrate e ferro bianco, questa struttura che sembra la pancia della balena pinocchiesca e che pare emula degli schizzi di Calatrava, avrebbe dovuto essere un centro commerciale sospeso con attività, negozi e uffici. In tal senso però, esistono, come esistevano anche all'epoca dell'ideazione prima e della realizzazione poi, leggi che ne bloccano l'uso perché non è consentito costruire attività commerciali sospese sopra i corsi d'acqua per una regolamentazione che tutela la sicurezza dei cittadini.
In quest'ambito di cattiva politica e di sprechi di risorse pubbliche, la compagnia parmense Lenz, sempre attenta, curiosa e dedita alla ricerca di luoghi nascosti per disvelarli ed aprirli all'occhio del proprio affezionato pubblico, zone e angoli da restituire attraverso il teatro e le performance alla cittadinanza in una sorta di riappropriazione degli spazi della città, qui, sul Ponte Nord, dentro quest'ammasso inutilizzato di acciaio candido, ha argomentato e sciolto la sua nuova creazione “Paradiso. Un pezzo sacro”, secondo passaggio dopo il primo “Purgatorio”. Stravaganti e mai prevedibili anche in questo Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, che hanno deciso di far passare il loro Dante scomposto e destrutturato prima dalla terra di mezzo delle purghe, messo in scena nell'ospedale vecchio, poi nel celestiale dentro il Ponte dimenticato, abbandonato e non frequentabile, fino all'“Inferno”, nel 2018, nel ventre del luciferino termovalorizzatore. La poetica lenziana ha questa capacità e forza, di scardinare luoghi e piegarli al senso stesso della drammaturgia, attraverso un grande studio architettonico al quale abbinare scelte teatrali, parole, visioni, mondi, proiezioni, astrattismi. Il collage è sempre un'onda che lascia tante porte spalancate su una riflessione perennemente in divenire, una somma di immagini cariche di fascinazione e suggestioni, una densità di sovrapposizioni estetizzanti, curate, dettagliate, pulite, incastonate in un rigore deciso e in una coerenza formale lucida e trasparente.
E questo Paradiso (curioso che nello stesso momento storico anche un altro gruppo, e sempre emiliano-romagnolo, le ravennate Albe, stiamo lavorando al trittico della Commedia dantesca) dentro il Ponte intatto, inservibile e impraticabile non fa eccezione. Come a dire che il Paradiso stesso sia terreno inservibile e impraticabile per le umane miserie. In questo “Paradiso, un pezzo sacro” (è all'interno del cartellone del Festival Verdi), dove si prendono a braccetto il compositore barbuto e Alighieri, sette cori lirici amatoriali hanno collaborato unendosi e affastellandosi oltre ad alcuni elementi consueti della compagnia, i cosiddetti “attori sensibili” per un ensemble di una cinquantina di membri, soprattutto donne. L'acqua e il rumore dello sgocciolio, come la sabbia della clessidra, la fanno da padroni, come mantra, a terra decine di corpi neri, avvolti come in bozzoli di ragnatela, tetri e luttuosi, gonfi che sussultano, cantando, come bachi scivolano, come bruchi s'annodano, si sfilano, si contorcono prima di spogliarsi e rivelare la loro candida purezza, il loro biancore e pulizia nitida, evidenziando la pancia rotonda e gravida, quella stessa della Vergine Maria.
E' lì il Paradiso, sta lì dentro la nascita e la rinascita, è la donna stessa, generatrice di vita, miracolo che si fa nuovamente, il Paradiso. Saliamo, o meglio ascendiamo, passando per i tre piani della struttura mentre un'anziana attrice sensibile (Delfina Rivieri) con evidenti problemi di deambulazione e rallentata da varie patologie, cammina lentissima, nella luce abbagliante: “Io sono la vergine Maria, generata e non creata, sono santa, sono donna, sono cielo, sono terra”. Anche Dante è latteo (Paolo Maccini), velato come un apicoltore, quasi un uomo sulla Luna: “Voglio entrare nella luce”. Ma è tutto un gioco di rimandi tra l'artificio teatrale all'interno di un luogo che deve essere sgombro e spoglio per legge e la vita là fuori, molto più inanimata, fatta di auto che scorrono veloci, di una tangenziale lingua d'asfalto. E' nei riflessi, nel limbo delle vetrate che uniscono il fuori con il dentro, che si mischiano le immagini, la grande luce che esplode dentro il tunnel e la nera notte che si mangia la sera là fuori.
All'ultimo piano tanti bozzoli (in stile Cocoon), che rappresentano le sante che Dante incontra e che gli cingono la visuale e il panorama, come stelle filanti ruotano mentre l'immagine della Scapigliata di Leonardo da Vinci (conservata all'interno delle sale della Galleria Nazionale di Parma, nel Palazzo della Pilotta) viene decostruita in dissolvenza, come un'ecografia, per vanificarsi a mattoncini, perdersi a pezzi. Il Paradiso è femmina, Dio è donna. Poesia e frammenti, pace e inquietudine, questo trasmettono i lavori dei Lenz, sempre raffinati, lucenti, lucidi, mai frivoli, pensosi e pensati, carichi, densi. La luce che esonda da questo “Paradiso” è anche la luce che aspetta di vedere quest'opera cittadina (della quale Parma forse non aveva bisogno). Per entrare in Paradiso bisogna abbandonare le nostre bucce, lasciare il nostro scafandro, abbagliati da tanta armonia.
Tommaso Chimenti 18/10/2017
Foto: Francesco Pititto