Si può intraprendere un viaggio anche senza varcare i confini della città propria natale, ripercorrendo la propria vita nel suo dispiegarsi ordinario e quotidiano ed elevando sprazzi di memoria a piccole porzioni di storia apparentemente innocue e irrilevanti; l’esistenza di un singolo quasi mai genera effetti su una realtà più grande, ma è parte di un tutto. La vita di una persona qualunque diventa, infatti, il pretesto per raccontare la storia di una città e di una generazione in “Salvatore favola triste per voce sola”, lo spettacolo di e con Silvio Laviano, per la regia di Tommaso Tuzzoli.
Al Teatro Brancaccino di Roma, Laviano porta in scena un monologo che si serve solo di luci e di pochi elementi, ma riempie il palco portando a galla sentimenti di varia natura, emozioni mai sopite nonostante il trascorrere del tempo. Il viaggio intrapreso si svolge in tre decenni e, attraverso un uomo solo e la propria voce, che variando di tono sembra moltiplicarsi, diventa un’esperienza sensoriale più ampia. Al suggerimento di immagini visive si affiancano descrizioni di odori, sapori e anche amori. Questa “favola triste” è fatta di profumi e di respiri, ma anche di sudore, saliva e lacrime: sullo sfondo la città di Catania con le sue contraddizioni e le sue contaminazioni. Salvatore, il cui nome di larga diffusione sicula è già denso di significato, è il bambino che viene al mondo prima del tempo, un neonato prematuro che vive i naturali riti di passaggio in modo precoce e cresce invocando in maniera ripetitiva Sant’Agata, protettrice della sua città. Cinque quadri fanno da cornice alla sua storia: dall’uscita dal grembo materno fino al trentesimo compleanno passando per l’infanzia e l’adolescenza. Salvatore ricorda i membri della sua famiglia ancorati alle tradizioni e ai pranzi senza fine, i primi amori, le piccole ingiustizie e quel primo incontro con la morte nella dipartita del padre. I momenti salienti di questo percorso sono accompagnati da canzoni pop di quegli anni e raccontati in prima persona, mentre il dialetto – che fa vibrare il monologo - è il mezzo espressivo ed emotivo, il tratto distintivo del registro comico e grottesco.
Laviano si fa cassa risonante di voci e ruoli ed esplode in movimenti frenetici quasi volesse emulare lo zampillare costante dell’Etna, tanto presente nel testo. La sua fisicità e il suo volto descrivono e interpretano in maniera sensibile i personaggi che popolano il vissuto del protagonista; bastano le parole e la presenza scenica dell’attore per delineare paesaggi e scandire contesti. Lo spettacolo intreccia vita e società assecondandone i cambiamenti e alterna al registro comico e ironico quello più drammatico e introspettivo. Salvatore parla al cuore dello spettatore per arrivare a sciogliere il nodo dell’esistenza, i suoi respiri si fanno sempre più faticosi fino all’asfissia finale quando il centro commerciale in cui lavora, emblema di una Catania consumista e ricca di nuovi idoli, è affollato e crogiuolo di diverse umanità che sgomitano per omologarsi e prendere la merce migliore. Di fronte a questa realtà la voglia di morire prima è grande tanto quanto la curiosità del bimbo prematuro nei confronti della vita, ma la storia di Salvatore si inceppa e il resto viene lasciato all’immaginazione del pubblico. Il viaggio nella vita di Salvatore è una sorta di commiato a quelle tradizioni siciliane in via di estinzione: Laviano salta sul “motorino” dei ricordi, quasi come un personaggio dei film di Tornatore, per poi cadere in preda alla malinconia, interprete di un equilibrio che vacilla, specchio di un passato ormai sepolto.
Silvia Natella 07/02/2017