“Abbiamo bisogno di un Attore in Rivolta che si faccia autore di nuova vita, che non si presti, per nessuna ragione al mondo, a ri-rappresentare ciò che non ama o non dovrebbe amare (...). La mia passione è sciogliere nodi, districare le trame.” (Armando Punzo)
Rivolta, passione, sangue, nervi che si fanno reti, parole e silenzi pregni di gesti, di simboli. Sono i riferimenti cardinali di “Dopo la tempesta”, opera centrale di Volterra Teatro Festival, arrivato quest’anno alla trentesima edizione, cifra tonda che sa di sfida e di resistenza, i punti di sutura e di condivisione tra ciò che sta fuori e ciò che vive dentro al carcere di massima sicurezza, l’umanità. Armando Punzo non si stanca di portare avanti la sua indagine sull’uomo, ne sviscera la natura, lo mette a nudo con ironia e (auto)critica, lo protegge, lo assolve; per farlo, nel suo ultimo lavoro si serve di Shakespeare, dei suoi drammi e della sua esistenza, delle sue intuizioni, anche quelle mancate.
Nel Cortile del Maschio il sole alto del pomeriggio di luglio ci inchioda alla scena, dove croci e scale si incastrano tra loro e sembrano suggerirci che senza sacrificio non ci può essere il raggiungimento di un bene superiore, che sia conoscenza, salvezza, libertà. Qui l’immolazione è nei confronti della parola, dell’evidenza, della ragione: “Di Shakespeare non mi interessa il soggetto, ma la sua ombra. Dei suoi personaggi e intrighi che copiano la vita e le danno concretezza, mi interessa il non detto, il mancante, l’aspirazione a un’altra esistenza”. Gli attori/detenuti della Compagnia della Fortezza popolano quest’arena sabbiosa, impastando vita e sudore, e si susseguono tra canti e citazioni da Otello, Macbeth, Giulio Cesare, Riccardo III, Il Mercante di Venezia, Romeo e Giulietta, La tempesta: le loro voci – che diventano “reali” quasi sempre e solo dal microfono del drammaturgo demiurgo - e i loro corpi prestano forza ai personaggi controversi e neri, alle loro “ombre” che passano come rena tra le mani del tempo inesorabile (una delle immagini immutabili dello spettacolo) in attesa del destino che si compie (la scure trascinata a terra). “La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente.” (Macbeth)
C’è un’inevitabile sovrapposizione tra detenuti e antieroi ed è questa la magia diffusa del festival, un tempo teatrale negato e rinnovato dalle ceneri degli uomini, delle loro colpe e paure, che Punzo/Shakespeare tenta di animare, di controllare per rinnovare la sua vena creativa necessaria ma dai quali è sopraffatto: “I miei incantesimi sono finiti; sol mi restano ora le mie forze, piuttosto scarse, per la verità” (La Tempesta), “Da quella fonte da cui pareva nascere il conforto trabocca lo sconforto” (Macbeth).
Il regista crea i dialoghi attraverso la prossemica dei corpi, avvicinandosi ai suoi protagonisti come a donar loro un soffio vitale che non basta però a ingannare il tempo, a spezzare il refrain di dolore e dannazione in cui tutti sembrano intrappolati, compresi noi che ci stringiamo in questo “spazio impalpabile, spazio dentro l’uomo che è contro la logica del quotidiano”, assetati di una liberazione interiore e di una purezza apparentemente perdute.
Nel momento in cui Punzo sembra chiudere la struttura circolare del suo spettacolo, spalanca invece una nuova prospettiva strappando le pagine della “sua” opera, un gesto di rottura con la narrazione precedente, il tentativo di rivoluzionare un equilibrio che sembrava ormai statico. È l’apertura a quella Città Ideale che dà il titolo all’intera rassegna e che qui ha le sembianze di un bambino il quale fa rotolare un grande masso rotondo attraversando l’intero spazio scenico: il futuro con le mani sul mondo, l’innocenza ritrovata e che negli occhi dei detenuti sorridenti diventa catarsi, l’accendersi di una fiammella di speranza. “Sappiamo ciò che siamo ma non quello che potremmo essere.” (Amleto)
Visto a Volterra il 27 luglio 2016.
Giulia Focardi 29/08/2016
Foto: Stefano Vaja, Pier Nello Manoni