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“Extra something”: il nuovo disco di Enrico Pieranunzi

Un viaggio che si snoda dagli anni Settanta ad oggi e che, partendo da Roma, lo ha portato a calcare i palchi di tutto il mondo, soprattutto nella terra dove è nato il Jazz, gli Stati Uniti. Un percorso che gli ha permesso di incrociare la sua strada con alcuni dei più importanti protagonisti di questo genere come Chet Baker, Paul Motian e Charlie Haden, solo per citarne alcuni. Si può riassumere così la carriera di Enrico Pieranunzi, una delle punte di diamante del jazz italiano, vincitore di numerosi premi internazionali e uno dei soli tre europei, con Michel Petrucciani e Martial Solal, ad essersi mai esibiti nel leggendario club Village Vanguard di New York. Lo raggiungiamo telefonicamente per l’uscita del disco The Extra Something, distribuito da Cam Jazz (20 maggio), per una piacevole chiacchierata in cui il Maestro Pieranunzi risponde alle nostre domande su questo nuovo album e sulla sua visione dell’arte. Ai ricordi e agli aneddoti si affiancano battute di spirito e uno sguardo sul presente che fa i conti con i residui della pandemia globale. Un’immersione totale nel racconto dei suoi traguardi e nell’affascinante storia della cultura musicale statunitense.

The Extra Something, suo prossimo disco in uscita, è stato registrato dal vivo durante una sua esibizione al The Village Vanguard di New York nel 2016. Che significato ha per Lei?

“Essere sul palco del Village Vanguard è per me come vivere in un film. Avere la possibilità di suonare con alcuni dei più importanti musicisti americani, un film dentro al film. Qui sono stati registrati alcuni dei dischi live che hanno completamente rivoluzionato la Storia e tutto questo si deve al fondatore Max Gordon, che aveva intuito la portata della registrazione dal vivo. Una scelta che ha cambiato tutto, radicalmente, e ci ha donato alcune perle inestimabili. Si può dire senza paura che si tratti del vero tempio del jazz americano, paragonabile alla Carnegie Hall per un musicista di musica classica e al Maracanà per un calciatore. Sono stato al Vanguard per otto volte, l’ultima nel 2018. Le tracce presenti in questo album risalgono al mio settimo concerto, tenuto nel 2016 appunto, e avrei voluto pubblicarle molto prima. Purtroppo la pandemia ne ha ritardato l’uscita. È sempre una sensazione incredibile essere lì, in un club pieno di fotografie dei grandissimi artisti che si sono esibiti prima di me e  dove si percepisce la forza emanata dal luogo stesso.”.

Qual è la narrazione che ispira l’album e i suoi titoli? Cosa vuol dire per lei in musica e nella vita l’ “Extra something”? 

“La storia tra noi jazzisti e i titoli meriterebbe un capitolo a parte: a volte i titoli li prendo dai giornali, altre si riferiscono a momenti particolari, a una storia personale, ad esempio “Five plus five” viene semplicemente dal fatto che l’idea per il pezzo è nata il giorno del mio cinquantacinquesimo compleanno ed è scritto con periodi musicali di cinque battute, il che è fuori dalle righe perché di solito i periodi sono di quattro o otto battute. “Suspension point” viene da una nota che ribatto continuamente. “Extra something” vuol dire “tutto e niente”, il “qualcosa in più” come lo spirito speciale che c’è al Vanguard: lì ci hanno registrato dal vivo Coltrane, Sonny Rollins e altri grandi,  vi aleggia un “extra”, cioè qualcosa di misterioso, è il “non so che” di bello e fuori dal comune. “Extra something” è anche improvvisare in maniera diversa dalla volta prima, con una prospettiva diversa sul mondo”. 

Ha dedicato questo album a Lorraine Gordon, proprietaria del Vanguard scomparsa nel 2018. Ci vuole raccontare meglio il suo rapporto con lei?

“A Lorraine devo l’esperienza più bella della mia vita: essere chiamato come ospite nel suo club. La incontrai nel 2010 quando mi fu chiesto di esibirmi per la prima volta al Vanguard. Pensavo fosse stato Paul Motian, grandissimo batterista con cui avevo più volte suonato in Europa, ad aver preso l’iniziativa e ad invitarmi; quando arrivai a New York scoprii che era stata lei a volermi nel suo locale. Mi disse che aveva sentito un mio pezzo alla radio ma aveva frainteso il mio cognome in “Petrosino” e aveva chiesto a Paul, suo grande amico e ospite fisso, di rintracciare un compositore europeo chiamato così. Solo mesi dopo Motian capì che ero io e mi mandò una mail. Da quel momento si sviluppò una sincera amicizia e mi commuovo a pensare alle chiacchierate con lei e la figlia Deborah prima dei concerti. Lorraine apriva il registro delle esibizioni, che segnava ancora rigorosamente a penna, e mi chiedeva: “Quando vuoi venire a suonare la prossima volta?”. Un ricordo incredibile. Per me è stata la Peggy Guggenheim del Jazz. Fu lei a convincere il suo primo marito, Alfred Lion fondatore della Blue Note Records, a chiamare in sala di registrazione Thelonious Monk per il suo primo disco. Questo dice molto sulle sue capacità e conoscenze: una donna straordinaria”.

Come vede il rapporto tra la musica classica, il jazz e la canzone? La sua discografia non fa discriminazione tra i generi musicali, includendo riferimenti a Tenco e a Gershwin, a parte il suo scritto su Bill Evans…

“Per me esiste solo la “bella musica”. Mio padre era un chitarrista jazz, autore e cantante di canzoni romane, quindi nella nostra famiglia c’era l’elemento popolare. Ricordo quando mi insegnava i pezzi jazz a orecchio: tornavo dalla lezione di pianoforte dove avevo imparato Chopin e poi a casa suonavo le canzoni popolari. Per anni ho tenuto separate le mie due anime, quella della musica scritta e orale (cioè l’improvvisazione), sono riuscito a metterle d’accordo solo recentemente. Il disco di svolta in questo senso è stato quello su Scarlatti, in cui ho improvvisato sulle sue sonate; poi ho arrangiato pezzi di Debussy in chiave jazz, insomma quando mi è possibile cerco sempre di fondere i generi”. 

In questo disco c'è spazio per l’improvvisazione e quale ruolo ha nella sua musica?  

“Per sfuggire all’etichetta per cui il jazz europeo è sempre un figlio spurio di quello americano, ho capito che l’idea forte era comporre pezzi miei, perché la composizione è un ritratto di sé stessi.. Poi, comporre è diventato più importante di improvvisare, anzi le due cose sono strettamente collegate, perché l’improvvisazione vola via (anche se può produrre composizione), e la struttura della musica si trova mentre si compone”. 

A che punto del suo percorso di compositore si colloca questo album? Si sente di accomunarlo ad altri della sua discografia? 

“C’è una bella differenza tra registrare in studio e dal vivo, quindi lo apparenterei agli altri live, in particolare agli altri due del Vanguard in una specie di trittico. Ognuno di questi concerti è stata un’occasione per sperimentare: ho voluto bilanciare la scaletta tra pezzi ritmici e più semplici (come “Blue afternoon”) e altri più sperimentali (come “Atoms”), spingendo i musicisti americani a mescolare i linguaggi”.

Quali arti ispirano la sua produzione musicale? 

“Decisamente la poesia, di cui sono lettore e collezionista. La poesia è vicina all’improvvisazione: i grandi poeti hanno la capacità di scioccarti con quattro parole. La poesia è vicina alle intuizioni fulminanti dell’improvvisazione, che durano pochi secondi e sai che non le riprenderai mai. Poi, mi relaziono alla prosa per l’aspetto narrativo: un bel pezzo di musica deve avere una struttura narrativa solida, cioè il racconto deve catturarti. Sicché, la mia ispirazione è più la parola scritta che l’immaginario cinematografico. Se penso al film, sono i suoni che saltano all’attenzione: quando ero al Vanguard ho ritrovato tutto il mondo espressivo dei film americani che ho sempre amato”.

Come ha vissuto gli ultimi due anni influenzati dalla pandemia? Come si sente adesso a tornare a suonare davanti al pubblico in sala?

“Sono stati due anni molto difficili. Si potrebbe pensare che, in quanto artista, in una situazione di isolamento un compositore abbia molto più tempo per dedicarsi alla musica ed essere libero di creare. Non è così, un artista non è una macchina ed è reattivo alle atmosfere che lo circondano; un’atmosfera depressiva non aiuta la creazione. Anche il rapporto con il pubblico è cambiato: siamo tutti più timidi, sia chi sta sul palco sia chi siede in platea. Stiamo cominciando a conoscerci di nuovo perché la situazione non è più come prima; per me la relazione con il pubblico non si ripristina immediatamente ma deve essere ritrovata. Più importante di tutto, è cercare il senso di quello che si fa nel contesto più generale, al di là dell’intrattenimento. Bisogna sempre dare il massimo e chiedersi se quello che viene fatto serva a qualcosa. La pandemia ha sollevato moltissimi dubbi ma c’è sempre un extra, ovvero la capacità, per un musicista, di poter creare un brano di musica o di improvvisare in una maniera creativa che prima non aveva considerato”. 

Prima di lasciarci, quali sono i suoi progetti futuri? 

“Vorrei fare della musica sempre più bella. Sono tornato a scrivere dopo molti periodi di ferma segnati da difficoltà e svogliatezza e questo ritornare a mettere mano alla musica, usando ancora matita e gomma da cancellare, mi dà un senso di benessere. Sto scrivendo una canzone per Simona Severini basandomi su un testo poetico di Jacqueline Risset, Les Phénomènes d’amour: è il secondo di questa fantastica poetessa francese che musico. Il mio desiderio per il futuro è di scrivere sempre e di suonare al meglio possibile in ogni circostanza”.

Gustavo Dabove, Elena Palazzi 20/05/2022

Es-senze: il profumo in mostra a Venezia dal 21 aprile al 27 novembre

Nel Museo di Palazzo Mocenigo, per la rassegna biennale MU-VE Contemporaneo, ha luogo la prima esposizione in Italia che vede la presenza di opere d’arte create usando come materia solo il profumo. Il progetto, curato da Pier Paolo Pancotto, prevede il contributo di dodici artisti, diversi per generazione e cultura, ma desiderosi di mettersi alla prova in una nuova dimensione creativa, quella dell’olfatto.
La mostra assume un carattere sperimentale, volendo aprirsi a un ambito di ricerca poco indagato, quello di assumere il profumo come materia prima dell’opera d’arte, trattandolo al pari di altri metodi espressivi. L’idea, secondo Pancotto, nasce proprio: «Vedendo negli archivi degli artisti opere che contemplavano l’olfatto come materia di indagine, e non come fattore “aggiuntivo” ma di pari dignità della scultura, della pittura e del disegno.»
Odori e profumi suscitano emozioni e sensazioni spesso difficili da descrivere con parole o immagini, rievocano emozioni, persone, luoghi che appartengono alla memoria di ognuno di noi. Allo stesso tempo però riescono a dare voce a ciò che è inenarrabile, intangibile, materializzandolo proprio tramite l’odore.
All’interno di Palazzo Mocenigo, il pubblico si troverà ad affrontare un inedito viaggio olfattivo, immerso in opere d’arte tanto diverse quanto diverse sono le sensazioni e le riflessioni che riescono a suscitare. I visitatori dovranno così passare da un ambiente che sa di catrame a uno che sa di incenso, fino a uno che ricorda l’odore della spazzatura. Il tutto calibrato in modo che gli odori delle varie stanze non si confondano tra loro da una sala all’altra, pur rimanendo persistenti.
Un solo elemento accomuna ciascuna delle dodici opere: l’aderenza alla realtà, senza distinzione tra sensazioni positive e negative. Un viaggio, quindi, tra puzza e profumo, tra ricordi ed emozioni.

Giulia Gambazzi  27/05/2022

Dialogo con Massimo Roberto Beato sullo spettacolo "Donne di Mafia"

È circa mezzogiorno quando raggiungiamo telefonicamente Massimo Roberto Beato, autore di "Donne di Mafia: Storia di un digiuno lungo trent’anni, per non perdere il vizio della memoria", spettacolo che in scena dal 23 al 26 maggio, presso il Teatro Spazio 18b di Roma. Attualmente Beato è in Inghilterra per lavoro e si è concesso una breve pausa per poter rispondere alla nostra intervista. Alla domanda “mi dica tutto sullo spettacolo” le sue parole sgorgano come un fiume in piena, irradiando il suo grande e irrefrenabile amore per il proprio lavoro. E ci racconta che tutto è iniziato nel 2012, per un laboratorio sulla legalità, che aveva tenuto a Tor Bella Monaca: “Era un laboratorio che nasceva in occasione delle stragi di mafia e coinvolgeva i ragazzi e le ragazze del quartiere – spiega Beato, con una voce ricca di emozione – ed era molto interessante notare come fosse percepito dai giovani, che hanno una sensibilità particolare verso questo tema. Il tutto era nato da un progetto dei teatri di cintura e dal proposito di portare il teatro in periferia. È stato un prezioso inizio, perché in quell’occasione, scrissi questo testo giovanile ispirato ad una di quelle vicende che sfuggono alla narrazione storica e da cui erano trascorsi ben vent’anni”. Durante un’afosa estate del 1992, a Palermo, quattro donne della città digiunarono in segno di protesta contro le stragi della mafia. Si riunirono in piazza Castelnuovo dal 22 luglio al 23 agosto e, nell’indifferenza generale e in quel silenzio che agevolava le attività mafiose, mostrarono apertamente la loro indignazione, senza armi e senza violenza.

“È un gesto potente, rivoluzionario, una genuina forma di protesta - spiega l'autore - un potente sciopero dal forte valore politico, oltre che sociale. La parte più interessante di questa protesta è l’utilizzo che viene fatto da queste donne del proprio corpo. Il loro corpo viene concepito come strumento di iscrizione. Quella di digiunare è una scelta apparentemente innocua, che sembra rimarcare l’azione straordinaria di Gandhi, ma che in verità assume un valore e un significato più profondo. Queste quattro donne si sono rese conto che il loro corpo, la loro corporalità, fosse per natura mafioso, fosse il prodotto della Mafia. Erano nate in un contesto sociale e geografico che produce quei corpi, che li rende uguali a sé, che li snatura al punto da far assumere loro la sembianza che desiderano. Sono corpi plasmati, passati per naturali. Giunte a questa scoperta, queste donne si snaturano, si liberano da quella sostanza mafiosa che vive in loro e cercano di riprendere il controllo su loro stesse. E, svuotando il corpo, liberano la loro società”.

La loro protesta, quindi, assume una natura performativa e si adatta alla dimensione del palcoscenico: “è un flashmob ante litteram se vogliamo - commenta – cercano di creare una micro-utopia, una loro micro-comunità che faccia da contrasto agli eventi che gravitano intorno e, così facendo, si dissociano”. Questo spettacolo si colloca trent’anni dopo le stragi di mafia e prevede un nuovo allestimento un nuovo cast e la nuova regia di Jacopo Bezzi, aiutato alla regia da Federico Malvaldi.

Com'è nata la vostra collaborazione?

“Non è il primo spettacolo che realizziamo. Dopo quel primo laboratorio di oramai vent’anni fa, era nata l’idea di portare in scena questo copione con un cast professionale. Ha debuttato ufficialmente al Fontanone Teatro, durante quella grande manifestazione che ora purtroppo non c’è più e che si svolgeva durante l’estate. In quell’occasione un produttore della Rai con cui stavo lavorando ha ritenuto doveroso farne una trasposizione televisiva, all’interno di un progetto sulla legalità per la scuola. Quando è andato in onda, ha avuto particolare riscontro. I trent’anni dall’evento, oggi, sono un pretesto per poter mettere in scena nuovamente uno di quegli eventi simbolici, ma circoscritti, che non vengono ricordati nei libri di storia”.

Il cast è costituito da Monica Belardinelli, Virginia Bonacini, Sara Meoni e Veronica Rivolta, che interpretano le quattro donne protagoniste della protesta. Si partirà da questo evento privato per trattare l’attentato di Paolo Borsellino, avvenuto il 19 luglio 1992, a neanche due mesi di distanza dall’uccisione del collega Giovanni Falcone. Sarà un viaggio all’interno degli orrori del nostro passato, per esorcizzare la possibilità che possa ripetersi, con l'ausilio della memoria. Per quanto riguarda questa nuova messa in scena, Beato è rimasto davvero colpito da alcune scelte registiche di Bezzi e dal lavoro che è stato compiuto sul suo testo: “Posso anticipare di essere rimasto stupefatto dal lavoro del regista, perché ha colto anche degli aspetti contemporanei. Questa operazion ha riattualizzato il mio copione, l'ha reso contemporaneo. Questa è una caratteristica che distingue la Compagnia dei Masnadieri, che ho fondato proprio con il mio collega Jacopo, oltre ad un’attenzione particolare riservata ai corpi e alla corporalità. Sono corpi che scrivono e creano queste storie in scene. Posso dire che sono davvero orgoglioso del lavoro che è stato fatto su questo mio testo, che se non erro è stato il primo che ho pubblicato. Un testo che agita in me dei tormenti proprio perché appartiene ad un’altra fase. Quando rileggi quello che hai scritto da giovane, vorresti cancellare tutto. E invece è un testo che ha ancora tanto di dire e che è stato trasformato in modi inimmaginabili, davvero stupefacenti per me. Quando scrivo, ho in mente una messa in scena potenziale; perciò, è incredibile restare sopresi dalla grande operazione che si può fare su quel testo. Mi sono sentito orgoglioso, davvero orgoglioso”.

Sono queste le parole con cui conclude Beato, con una sonora risata e con grande umiltà. Ora non resta che metterci in ascolto e riflettere, ricordare, perché nulla si ripeta.

Adele Porzia 23/05/2022

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